FNDX, l’intervista al CEO Fabio Nalucci: “In Italia troppa improvvisazione, all’estero più serietà”
Abbiamo intervistato il CEO di FNDX, società di advisory italiana che si affaccia all’estero alla ricerca dei migliori progetti innovativi, per parlare di ecosistema italiano e non solo
A poche settimane di distanza dall’evento The Bologna Gathering abbiamo avuto il piacere di intervistare Fabio Nalucci, CEO di FNDX, una società all’avanguardia nel campo della consulenza tecnica per fondi di Venture Capital e Private Equity. FNDX si distingue per la sua capacità di identificare i progetti innovativi e le tecnologie emergenti più promettenti, supportando gli investitori nella selezione delle migliori opportunità su cui puntare. Oltre a questo, la società offre un ampio ventaglio di servizi di advisory per operazioni di fusione e acquisizione (M&A), rivolti ad imprenditori e founder di startup in Italia e non e aziende digitali in ogni fase del loro percorso di crescita, dalla raccolta fondi iniziale fino alla fase di exit. Con la sua esperienza nel settore e una visione orientata al futuro, Fabio Nalucci ha fatto il punto sulle sfide, le opportunità e delle prospettive per l’ecosistema dell’innovazione e degli investimenti in Italia e nel mondo, ma ci ha anche portato nel cuore delle attività di FNDX.
Come nasce FNDX?
FNDX nasce come naturale prosecuzione di un processo nato una decina d’anni fa. In seguito alla vendita di un’azienda fatta nel 2014 iniziai da imprenditore in mercati privati, prevalentemente sul venture capital e private equity. Da quell’esperienza si crearono diversi veicoli d’investimento che hanno portato alla nascita – in partnership con Azimut – di un fondo di venture capital digitech e successivamente, tra fine 2022 e 2023, alla nascita di FNDX, una struttura dedicata all’advisory, a fondi di venture capital e private equity e alla costruzione di veicoli di investimento per specifiche iniziative, nonché per quanto riguarda la parte di fundraising e M&A. Questo significa aiutare le aziende che vogliono crescere più velocemente a raccogliere capitali e aiutare le aziende che sono arrivate al termine di un percorso a fare exit, a vendere. Un percorso basato sull’esperienza, ma con già 200 milioni di capitale sotto advisory dalla nascita, quindi con una dotazione importante rispetto alla dimensione del mercato italiano.
In che modo FNDX opera in concerto con Gellify e Azimut?
FNDX nasce proprio da Gellify, perché il team di investimento che quando fondai proprio Gellify alla fine del 2017, era stato costituito per poter supportare le attività di scouting delle startup e investimenti con il veicolo Gellify Digital Investment. Quella struttura dedicata aveva in essere tutte le relazioni con le startup per conto della società. In seguito alla partnership con Azimut, che a fine 2019 ha investito nella società, lanciando il fondo Digitech, si decise di continuare il percorso di investimenti dando vita ad una nuova iniziativa, sempre sotto il mio governo, ma con il contributo di Azimut. Con Azimut si continua a fare advisory, mentre con Gellify c’è un rapporto di partnership sia per il deal flow, osservando le opportunità di investimento, c’è un continuo scambio. Al tempo stesso c’è un continuo rapporto per quanto riguarda la validazione tecnologica delle innovazioni, per cui è necessario attingere dalle capability e dal know-how di Gellify. Si tratta di un aspetto cruciale: è importante investire sempre di più in tecnologie di valore, dato che l’obsolescenza tecnologica arriva molto in fretta e bisogna essere sicuri che il progetto su cui si punta sia veramente innovativo.
Come si articola il processo di selezione e advsory delle startup?
Si lavora in in-bound e out-bound. La prima deriva da richieste dirette che arrivano dal network e dalle stesse Azimut e Gellify, nonché altri fondi che segnalano progetti da valutare, ed è una possibilità che riguarda il 90% dei casi. Nel caso dell’out-bound si tratta di ricerca, soprattutto all’estero, dove lavoriamo con acceleratori, fondi, università e centri di innovazioni che ci consentono di cogliere altre opportunità. L’intento chiaramente è di crescere all’estero, anche dal punto di vista della credibilità. Il secondo step è valutare le società, per essere sicuri che possano fare bene in futuro. La parte tecnologica rimane fondamentale: sul fronte consumer la tecnologia non conta nulla. Le scelte su prodotti e servizi sono dettate da altri fattori, prima ancora che dalla tecnologia. Nel B2B e in particolare nel deeptech, è determinante offrire davvero il risultato promesso grazie all’uso della tecnologia che si porta.
Quali prospettive ci sono per FNDX e più in generale per le startup in Italia?
FNDX sta esplorando possibilità di aprire all’estero, soprattutto per essere maggiormente connesso con gli ecosistemi più maturi, che da un lato forniscono maggiori opportunità da valutare, una qualità maggiore degli imprenditori, ma anche un deal flow migliore. Continuo a sostenere che l’ecosistema italiano sia caratterizzato da una grande improvvisazione della classe degli startupper: hanno travisato il concetto secondo cui fallire faccia parte del gioco. Per le startup rispetto all’Italia, all’estero le cose sono molto più serie. Stiamo cercando di fare questo tipo di crescita, che richiede necessariamente un’espansione geografica. È molto difficile fare deal flow all’estero essendo lontani dagli ecosistemi. In questo momento i fondi fanno fatica a raccogliere soldi dagli investitori. Il Venture Capital dovrebbe fare circa il 25% di RR per essere appetibile, considerando il rischio intrinseco. In europa il private equity gira tra il 16 e il 20% di RR annuo. Noi abbiamo un track record sull’exit al 26%, poco sopra quella soglia, ma con un numero consistente di casi da considerare. I dati di exit sono quelli che parlano e per raccogliere bene bisogna avere alle spalle delle buone performance. Senza investimenti nell’economia reale per questo Paese le possibilità di crescita futura è minore.
Alla luce dei risultati di FNDX, quali sono i punti di forza nel panorama dell’advisory?
La scelta di FNDX di essere advisor nasce dal lasciar fare il mestiere delle SGR a chi ha una lunga tradizione nel settore. Noi ci confrontiamo più con i piccoli fondi di Venture Capital e con chi fa effettivamente gestione di fondi di private equity. A differenza loro noi ci appoggiamo ad Azimut e ci occupiamo di advisory. I nostri competitor non sono chi fa solo M&A, i grandi studi di consulenza. Il nostro punto di forza è selezionare bene le società e far fare buoni ritorni. Si tratta di modalità molto distanti tra loro. Le nostre regole sono diverse, ad esempio tengono conto delle norme italiane. In media miriamo a fare almeno sul 50% del portafoglio un rientro di capitale con moltiplicatori che oscillano tra il 3 e il 4. La combinazini di ritorni e write off porta ai numeri già commentati pocanzi, con un RR intorno al 25%. I round fatti da operatori internazionali, sopra i 10 milioni, sul nostro portafoglio fanno pensare che si possa quantomeno avvicinare un unicorno.
Recentemente si è tenuto The Bologna Gathering, dove avete partecipato con FNDX. Qual è il bilancio?
Sicuramente è stato un evento in grado di portare su una città che non è la capostipite della finanza italiana una serie di investitori internazionali e il gotha degli investitori italiani per parlare di ecosistemi di incubazione e investimenti. È un bellissimo segnale. Mi porto a casa la consapevolezza che lavorando in maniera consistente, continuando a far crescere l’ecosistema delle startup in Italia, si possano attirare gli investitori dall’estero. Mi ha colpito il discorso di Alec Ross, consulente della Presidenza Obama, che ha evidenziato come l’Italia sia stata capace di portare un contributo all’innovazione negli ultimi 2000 anni che hanno cambiato radicalmente la vita del pianeta e tuttora è un popolo capace di innovare.